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1.1Aprese un'altra porta lì vicina
1.2d'un giardin vago che d'autunno è detto
1.3e fabricato par da man divina.
1.4Questo è la stanza e questo è il ver recetto
1.5del giovenetto Bacco e di Pomona;
1.6di magio il bel principio è qui perfetto,
1.7ché se magio de fior porta corona,
1.8settembre fertil poi de frutti è pieno:
1.9quello il principio, questo il fin ne dona;
1.10questo ha degli ebri il dolce latte in seno,
1.11vedese qui il villan scalzo e vinoso
1.12più lieto star quanto è nel vin più osceno.
1.13Lettor, per men fastidio e mio reposo,
1.14imagina uno autunno e vedrai tutto,
1.15ché 'l longo dir talor troppo è noioso:
1.16s'io volesse narrar qui d'ogni frutto,
1.17fastidio a te, fatica a me seria,
1.18né satisfatto al fin te arei condutto.
1.19Apresso a questo per un'altra via
1.20s'entra in un orto qual ditto è iemale,
1.21né credo paro a questo un altro sia
1.22(qui fere sono e augei che spiegan l'ale)
1.23de edera fatto, busso e rosmarino,
1.24de cedri, aranci e lauro triunfale.
1.25Restai (passando per il bel giardino
1.26il duca mio e io) pien di stupore
1.27come a intrare in cità fa il contadino,
1.28che per la novità distratto ha il cuore
1.29e qual silvagio in mezo de la gente,
1.30guardando in qua e in là di sé par fuore.
1.31Tale impression me fecer ne la mente
1.32le cose singular ch'io vidi alora,
1.33che 'l tutto ancor me pare aver presente;
1.34Zefir pittor con la gentil sua Flora
1.35e le tre Ore in questi bei verzeri
1.36son gli ortolan che dentro fan dimora.
1.37Così giongendo ai liminar primeri
1.38del gran palagio, vidi su la porta
1.39un pien de orgoglio e de costumi feri:
1.40io suspettoso e con la facia smorta
1.41remasi alor vedendol sì feroce,
1.42pur me accostai a la mia fida scorta,
1.43la qual me disse con summissa voce:
1.44– Intra dentro secur, non dubitare,
1.45ch'a l'omo forte il minaciar non noce.
1.46Diogene è costui, lassal cridare,
1.47Diogene a se stesso crudo e immite,
1.48che acquista il suo cognome col latrare –.
1.49Queste parole a pena avea finite
1.50l'angel mio santo che quel om silvagio
1.51incominciò a cridare: – Unde venite?
1.52Non entra gente in questo gran palagio
1.53plebea e vulgar, però tornate in dreto,
1.54tornate a prender pur altro vïagio –.
1.55Respose il mio custode a lui: – Sta queto
1.56Diogene, ché 'l tuo bagliar è in vano:
1.57nostro venire è per divin decreto –.
1.58Poi me pigliò in presenza sua per mano
1.59e disse: – Segue me senza paura,
1.60né te curar del suo parlar villano:
1.61Diogen più d'altrui che di sé ha cura,
1.62lassal cridar, ch'el fa il suo vero offizio,
1.63ché 'l cinico il latrare ha per natura –.
1.64Così passassen dentro il santo ospizio
1.65pieni d'un sacro orror di reverenza,
1.66pensando che qua mai non intrò vizio
1.67e ch'io era alora inanti a la presenza
1.68dei secretari de Natura gionto
1.69e inanti al fonte de l'umana scienza.
1.70L'angel mio che di me teneva conto,
1.71che de l'ammirazion videmi vinto
1.72e immobil star come uom che sia defonto,
1.73disse: – Non temer non, nel laberinto
1.74non sei del Minotauro, ma in un loco
1.75dove non pò star uom d'affanni cinto –.
1.76Io venni in viso alora come un foco
1.77al son de quelle angeliche parole,
1.78con qual me spinse avanti a poco a poco,
1.79sì come spesso il precettor far suole
1.80al timido scolare e vergognoso,
1.81ch'al patre caro apresentare il vòle:
1.82il fanciullino quanto può sta ascoso,
1.83temendo quel sever paterno sguardo,
1.84l'altro con voce e mano il fa animoso.
1.85E così pronto me facea e gagliardo
1.86il genio mio a questa magna impresa,
1.87vedendomi restar sì vile e tardo.
1.88Poi disse: – Un'alma de virtute accesa
1.89non de' smarrirse né temer fatica,
1.90ché 'l faticar per la virtù non pesa,
1.91né può perir chi l'ha per vera amica –.
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