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1.1Chi me darà l'ingegno e le parole
1.2ch'io narrar possa ora il più novo caso
1.3ch'altro che mai sia visto sotto il sole,
1.4se da orïente e poi fine a l'occaso
1.5cercassi? Chi soccorrer può a mia impresa,
1.6se non mi aiuti tu, sacro Parnaso?
1.7E però di furor celeste accesa
1.8manda Uranìa, a ciò che col suo aiuto
1.9al fin guidi il mio tema senza offesa.
1.10Non era il Curzio a pena al fin venuto
1.11dil suo parlare, il qual tanto a noi piacque
1.12per esser novo e erudito e arguto,
1.13che in mezzo il fonte, fuor de l'ombrose acque,
1.14una matrona a l'improviso emerse,
1.15nuda come nel giorno quando nacque;
1.16e quando a gli occhi nostri se scoperse,
1.17qual cigno parea in l'onde, e tal chiarezza
1.18rendea ch'alcun de noi non la sofferse.
1.19Ma poi che fu la nostra luce avezza
1.20in la sua luce, con un gran diletto
1.21stavamo a contemplar tanta bellezza.
1.22Così mirando quel divino aspetto,
1.23era sua vista sì fulgente e pura,
1.24che refletteva ognun di noi nel petto,
1.25e l'acqua che parea prima sì oscura
1.26per l'ombra di quella arbore frondosa,
1.27limpida e chiara venne in sua natura.
1.28E poi in vista tutta vergognosa,
1.29cominciò a dir ch'ella era e la cagione
1.30dil star nel fonte sì sumersa e ascosa,
1.31e dicea: – Non prendete ammirazione
1.32di averme qui sumersa retrovata:
1.33Necessità m'ha indutta e non Ragione.
1.34Figlia del Tempo sono in luce nata
1.35e la mia madre Esperïenza è detta,
1.36e Verità per nome io son chiamata;
1.37ben che dal vulgo ignaro io sia reietta,
1.38son dea immortale e un figlio generai,
1.39persecutor d'ognun de la mia setta:
1.40Odio si chiama e, se 'l trovasti mai,
1.41scaciate questo iniusto mio inimico
1.42che a ognun chi me ama sempre noce assai.
1.43D'una femina questo è fatto amico
1.44ceca, maligna, vile, altiera e strana.
1.45e molti più diffetti ha ch'io non dico:
1.46Ignoranza si chiama questa insana,
1.47da quale ogni mal vien infra la gente:
1.48bestia è di dentro e par di fuora umana.
1.49E è questa scelesta sì potente
1.50che a' mei seguaci e a me sempre contrasta,
1.51e abiando ella più amici, io son perdente.
1.52A questa ceca e ignara non gli basta
1.53di averme vinta, ché anche in piano e in monte
1.54mi segue, a ciò ch'io resti spenta e guasta;
1.55e però me summerse in questa fonte
1.56sol per fugir il suo bestial furore,
1.57non potendo star seco a fronte a fronte.
1.58Ma dubiando ella pur dil mio valore,
1.59qui vicino piantò quello olmo ombroso.
1.60a ciò che non paresse il mio splendore,
1.61ché alcun vedendo il loco luminoso
1.62per qualche caso non venisse ancora
1.63a trarme fuor di questo fonte ascoso;
1.64ma poi che tutti tre qui vi vidi ora
1.65e il vostro dotto ragionar sentendo,
1.66amici ve stimai e venne fuora.
1.67E se bene il parlar vostro comprendo,
1.68saper voresti chi Fortuna sia,
1.69e de insegnarla a voi certa mi rendo,
1.70e vi farò, piacendo, compagnia
1.71a la stanza di quella e vederete
1.72a che subietto il stato umano stia.
1.73E quando questa cognosciuta arete,
1.74la qual sopra gli uman ha tanto impero,
1.75son certa che da poi la sprezarete:
1.76il suo sguardo crudel, fallace e altiero,
1.77il quale ogni mortal tanto paventa,
1.78non vi parerà poi forse sì fiero –.
1.79Pien di stupore e con la vista intenta
1.80stava ognuno di noi a i dolci accenti
1.81di quella che dal mondo è quasi spenta,
1.82e come quello ch'ha tenuto intenti
1.83gli occhi nel sole e quasi ceco resta
1.84se avvien che in altra parte mirar tenti,
1.85avendo i lumi nostri usati in quella
1.86tanta chiarezza, ogni altra cosa gli era
1.87fuor d'ella a riguardar troppo molesta.
1.88Presa adonque costei per duce vera,
1.89poi che d'un bianco vel fu recoperta,
1.90in ver Fortuna si aviò primera
1.91con noi, come poco anzi si era offerta.
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